Cacciatori di tesori e tesori da proteggere

Quanto può valere un’anfora antica? E un vaso greco? Ma quanto guadagna un archeologo se trova una moneta d’oro? Queste domande, che ogni archeologo che si rispetti si sarà sentito ripetere decine di volte, tradiscono l’idea comune che, ancora oggi, si ha dell’archeologia come di un’avventurosa caccia al tesoro.

Un’idea evidentemente pericolosa, perché ogni tesoro, si sa, aspetta solo qualcuno che lo trovi, e poco importa se è un archeologo o qualcos’altro, se ha studiato anni e anni per capire cosa sta facendo o se sta semplicemente giocando con paletta e secchiello.

Nel campo dell’archeologia subacquea i danni derivanti da errate convinzioni e mancata sensibilizzazione sono ancora più ingenti: i relitti, le anfore, le ancore, i mosaici, i giacimenti sommersi sono alla mercé di tutti e la spoliazione è purtroppo una realtà quotidiana. Senza considerare ancora le razzie su larga scala (si pensi al caso Odyssey), va detto che da quando Cousteau e Gagnan hanno messo a punto l’autorespiratore, visitare un relitto e portarsi un ricordino a casa è diventato un gioco da ragazzi e un numero altissimo di giacimenti archeologici sottocosta è stato depredato.

Resti di un'anfora

Si tratta di una realtà triste: chi ruba un’anfora e se la porta a casa, per farne un elegante portaombrelli o per tentare di rivenderla (il più delle volte senza nessun risultato) non solo infrange la legge e rischia sanzioni molto pesanti, ma è colpevole di un’irrimediabile perdita di informazioni e dispersione del patrimonio. Chi è convinto che gli archeologi giochino a cacciar tesori forse non lo capirà mai, ma la cosa più importante di uno scavo è la documentazione: è da quest’ultima che proviene la maggior parte delle informazioni utili alla ricostruzione del passato e non dal pezzo in sé. Pertanto anche il razziatore pentito che per mettersi la coscienza a posto restituisce i pezzi a un museo, di fatto resta colpevole di una irrecuperabile perdita di informazioni.

Come si ovvia a tutto questo? Il primo punto è sicuramente la sensibilizzazione: solo partendo dai neobrevettati, dalle persone che iniziano ora a immergersi, si può tentare di costruire una mentalità nuova. Occorre poi un maggiore coinvolgimento dei diving, che possono avere un ruolo attivo nelle tutela e nella protezione del patrimonio sommerso. E’ consigliabile, purtroppo, mantenere ancora occulte le coordinate dei siti (ci sono paesi come il Portogallo in cui le coordinate per il GPS vengono pubblicate e -pare- nessuno ruba niente, ma il patrimonio è minore, il numero di sub anche, e il controllo è più capillare). Vanno infine censiti e registrati tutti i giacimento sommersi (in Italia si sta lavorando in questa direzione con il progetto Archeomar, ma il censimento è per ora limitato solo a Puglia, Calabria, Campania e Basilicata).

La Sicilia, grazie al lavoro della nuova Soprintendenza del Mare è riuscita a mettere in atto un primo esempio di telecontrollo, con telecamere piazzate tutt’intorno al sito: un’idea ottima, che oltretutto consente di lasciare le anfore ed i reperti lì dove sono, in accordo con le nuove direttive dell’UNESCO. La Croazia, invece, ha deciso di proteggere i suoi siti recintandoli con gabbie di metallo ancorate al fondo.

Dipende solo da noi fare in modo che il patrimonio resti a disposizione di tutti. 
Attiviamoci.